IN THE FRAME OF ÀMINA
Dalla Sardegna a New York, e ritorno
di Fabio Acca
Valeria Orani è una donna pragmatica e visionaria. Da New York, dove vive e lavora, è impegnata da diversi anni, tra le tante cose, in un percorso di valorizzazione e internazionalizzazione della cultura teatrale italiana negli Stati Uniti, con una attenzione costante anche alle relazioni con la Sardegna, sua terra madre. Ci conosciamo da molto tempo, ma la nostra vita professionale finora non si è mai incrociata: troppo impegnato, io, nel seguire la ricerca di artisti radicali e perciò di non facile presa; troppo impegnata, lei, a trovare un sempre difficile equilibrio tra le ragioni dell’arte e quelle del mercato. Ma Valeria è anche una persona ostinata e generosa. Con la passione che da sempre la contraddistingue, condivide un ragionamento sulla comune convinzione che lavorare sulla tradizione, in questo caso isolana, non significhi necessariamente esibire in maniera folklorica le sacre insegne dell’arte sarda. Piuttosto rilanciare i principi universali di una cultura tanto arcaica quanto radicata nell'immaginario collettivo, per stanare nuovamente quella necessaria e originaria incandescenza che, ancora oggi, sebbene trasformata, colpisce ogni anima a qualsiasi latitudine del mondo.
Con tali premesse, Valeria mi coinvolge dunque nella ideazione di un progetto da presentare entro il 2018 nell’ambito del bando IdentityLab 2020 emanato dalla Regione Sardegna, volto alla valorizzazione e internazionalizzazione, in chiave appunto identitaria, della produzione - non solo culturale - della Sardegna. Lei a New York, io a Bologna, dopo estenuanti sessioni di brainstorming on line di fronte ai rispettivi computer, ecco che comincia a prendere forma Àmina. L’idea, per certi versi, è semplice, e in qualche misura riguarda anche le nostre singole biografie. Cosa significa, per un artista, essere nato in Sardegna? Come depositario del linguaggio, quali segni, quali matrici, porta con sé nel momento in cui lascia la propria terra d’origine e si radica in un’altra terra, in un altro paese, in un’altra cultura? Che tipo di trasformazione subiscono queste matrici? E, quando torna nella terra che lo ha generato, ha trasformato le sue radici in qualcosa che ancora vibra? Come può restituirle in modo tale che possa autenticamente vibrare anche per gli altri, per un'intera comunità?
Sono domande che nel corso dell’ideazione entrano in risonanza con il famoso pamphlet di Giorgio Agamben Che cos’è il contemporaneo? Uno dei testi più citati - e più banalizzati, per molti versi - quando si vuol tentare di risolvere con uno slogan a effetto l’eterno dilemma intorno alla definizione del presente. Solitamente la frase più golosamente gettonata è quella che dice “Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”. Ma cos’è questo misterioso “fascio di tenebra” di cui parla Agamben? Ce lo dice qualche pagina più in là, si tratta di “una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi”, un “appuntamento segreto fra l’arcaico e il moderno”, per il quale “l’avanguardia, che si è smarrita nel tempo, insegue il primitivo e l’arcaico […] per essere contemporanei non solo del nostro tempo e dell’“ora”, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato”. Che detto in altro modo, significa che il “contemporaneo” corrisponde a quello che già Nietzsche definiva “l’inattuale”. Ovvero a dire che è autenticamente contemporaneo chi non coincide del tutto con il proprio tempo, non vi è conforme, né si adegua alle sue pretese, o trend, ed è perciò, in questo senso, inattuale. Ma proprio per questo, proprio attraverso tale scarto e paradossale, anacronistica torsione, è capace più degli altri di coglierne il senso e le contraddizioni.
Questa suggestione, concettuale e “di tenebra”, diventa così l’asse su cui poggiare tutta la progettualità di Àmina: un viaggio non scontato di andata e ritorno, sia geografico che temporale, tra alcune forme ancestrali che regolano il patrimonio identitario - diciamo l’anima - della Sardegna. “Àmina”, infatti, in lingua sarda significa “Anima”. Una parola che suggerisce immediatamente qualcosa di profondo e autentico, ma allo stesso tempo, nella sua dinamica palindroma, invita a muoversi tra le sue lettere, a “danzare alla rovescia”, come direbbe Antonin Artaud, per coglierne il senso. La ricerca di questa “anima sarda” viene però qui ribaltata sul presente, per rigenerare le forme ancestrali alla base del viaggio in una chiave contemporanea, restituendo così una percezione che ne possa testimoniare l’universalità. Il paradosso, insomma, evocato dalla “tradizione”, che impone un nobile “tradimento” affinché il valore immortale dell’origine possa rimanere vivo e vitale.
Se lo scarto temporale, da un punto di vista ideativo, si fa sempre più stringente, quello sul piano geografico incalza in una direzione altrettanto precisa. Proprio la città di New York, sede per eccellenza, anche simbolica, dei valori contraddittori del contemporaneo, costituisce un polo di attrazione al quale non è possibile rimanere indifferenti, anche in virtù delle concrete opportunità di elaborazione progettuale determinate dalla presenza pluriennale di Valeria in quella città-mondo. Dalla Sardegna a New York, e ritorno, diventa dunque per il progetto non solo un’immagine mitica di viaggio, ma un modello di lavoro, una concreta opportunità di applicazione ispirata alle traiettorie trasformative pensate nella fase precedente. Un percorso articolato in tre tappe. La prima (l’origine), in Sardegna, come progettazione e individuazione di un’azione connessa al contempo sia alla produzione degli artisti coinvolti che a forme della tradizione culturale isolana; la seconda (il viaggio), a New York, come residenza di ricerca mirata allo studio e alla sperimentazione dell’azione in rapporto alla cultura del contemporaneo; e infine la terza (il ritorno), nuovamente in Sardegna, come restituzione nella forma di un intervento artistico nel paesaggio e in alcuni luoghi evocativi legati ai temi dell’arcaico. Tre momenti distinti, dedicati sì principalmente all’elaborazione artistica, ma anche a incontri, relazioni e a contesti di condivisione pubblica che possano generare intorno al progetto un interesse, un consenso e un potenziale rilancio da parte di soggetti pubblici e privati. In particolare, la terza e ultima tappa in Sardegna si configura come un vero e proprio sharing a beneficio di un mirato gruppo di operatori culturali internazionali, specificamente selezionati e coinvolti in ragione di un loro potenziale investimento sugli artisti e sul territorio.
Gli artisti in grado di operare in una dinamica di questo tipo non possono che essere individuati sulla base di caratteristiche decisamente particolari. Prima di tutto devono essere nativi, cioè nati e cresciuti, non solo artisticamente, in Sardegna. Devono portare sul proprio corpo, nella propria condizione di esistenza, i tratti, o la memoria, di una appartenenza culturale originaria. In secondo luogo, da un punto di vista disciplinare, devono potersi muovere liberamente, in maniera anfibia, tra i linguaggi, in quella sfera di liquidità progettuale che caratterizza l’arte contemporanea del presente e che ha nell’ampio spettro del “performativo” la sua sintesi più efficace: senza dogmatici presidi estetici o disciplinari e con una forte disponibilità alla dimensione relazionale. Terzo elemento, altrettanto importante e imprescindibile, nel loro essere riconducibili al patrimonio artistico sardo non devono però esserne in qualche modo succubi. Devono, in altre parole, avere già conosciuto il senso di sradicamento di chi lascia la propria terra, per favorire attraverso la propria azione artistica nuove connessioni e contaminazioni con culture altre e differenti.
Un'analisi, dunque, complessa, che con l'ostinazione curatoriale di chi scrive sfocia presto nell’idea di coinvolgere Maurizio Saiu, Alessandro Carboni e Cristian Chironi. Figure diversissime, tuttavia accomunate da una produzione nella quale convivono con mirabile equilibrio tracce della propria cultura originaria e accelerazioni contemporanee dettate dal costante confronto con un contesto internazionale. Ciascuno di loro può essere considerato una eccellenza nel campo della sperimentazione dei linguaggi in cui l’atto artistico convoca la presenza del corpo, in una dinamica che si fa soglia e sintesi disciplinare, tra arti visive, plastico-installative, performative, coreutiche e musicali, attraversate con differenti gradienti e intensità.
Maurizio Saiu: con Maria dopo Maria
Alessandro Carboni: testo e contesto
Cristian Chironi: un camaleonte
Postilla
La terza e ultima sezione del progetto, ideata come restituzione nella forma di un intervento artistico nel paesaggio della Sardegna e in alcuni suoi luoghi evocativi legati ai temi dell’arcaico, era inizialmente rivolta a un gruppo di operatori culturali internazionali, specificamente selezionati e coinvolti in ragione di un loro potenziale investimento sugli artisti e sul territorio. Tuttavia, a causa della pandemia da Covid-19 che dal 2020 ha investito drammaticamente tutte le comunità del pianeta, si è reso necessario cambiare in corsa il progetto e rimodulare l’intervento, pensandolo specificamente per essere fruito in chiave filmica.
Da qui, dunque, la realizzazione di tre brevi documentari curati da Fabio Acca: Contèx-ere, sull’esperienza di Alessandro Carboni; Camaleonte, su quella di Cristian Chironi; C’è ancora un filo di luce nel mio cielo, su quella di Maurizio Saiu. Non “opere” in senso stretto, piuttosto appunti, che comunque, pur nel loro obiettivo di documentare un’esperienza per molti versi straordinaria, accolgono anche una pulsione autoriale degli artisti e del curatore. In tal modo si è voluto salvaguardare uno degli obiettivi principali del progetto, ovvero la possibilità, grazie a un prodotto filmico sottotitolato, di disseminazione e internazionalizzazione di un percorso che pone al centro il processo di trasformazione e contaminazione della cultura originaria in una risorsa collettiva declinabile a qualsiasi latitudine del mondo.
Mi preme perciò ricordare e ringraziare tutti coloro che, da settembre 2020 (in cui sono avvenute le restituzioni degli artisti in Sardegna) a maggio 2022 (ultime giornate di editing filmico) hanno contribuito alla realizzazione dei tre brevi documentari e che per motivi di coerenza narrativa non si è potuto fin qui includere nel racconto: Paolo Carboni, Andrea Cannas e Edoardo Matacena (riprese); Davide Dal Padullo (montaggio); Michele Boreggi (post-produzione audio). Un ringraziamento particolare, infine, a Raffaella Mascia (manager di produzione), che con la sua cura, il suo sguardo e la sua sensibilità ha reso sempre facili cose per tutti noi molto difficili.